Token Ring!

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dock under cloudy sky in front of mountain
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Primavera inoltrata del 1993, ultime ore piccole della giornata. Arrivo in Vittor Pisani al numero 26, quando ancora a Milano ci si concedeva il lusso di parcheggiare l’auto sotto le finestre dell’ufficio. E’ il mio primo giorno da consulente in Rohm and Haas Italia, multinazionale americana della chimica che, per ragioni ancora oggi a me oscure, avevano deciso di far poggiare i miei giovani polpastrelli sulle loro tastiere.

L’ingresso sembra mastodontico, imponente, tipico delle ere pre-internet e pre-crisi energetiche. Forse solo a me, il più piccolo, l’ultimo arrivato. Imponenza non più verificabile oggi, ahimè, visto che il vecchio palazzo ha lasciato il posto ad un più moderno nipotino, tuttora in costruzione.
Salgo al piano IT dove viene ad accogliermi Giovanni, il responsabile del Centro Elaborazione Dati, il cosiddetto CED, nella nomea così tanto cara a noi boomer.
Mentre ancora ai convenevoli, il mio sguardo casca in direzione fronte ascensore, oltre la porta che nasconde un ufficio con due scrivanie “a elle” attaccate tra loro, dove intravedo due ganzissimi e giganteschi computer color bianco panna e due signori -non ne intuisco l’età- che, di spalle, vedo martellare intensamente su due grosse tastiere meccaniche, che “mi suonano IBM”. Emozione, non vedo l’ora di… sto sudando. Anzi, sudano i miei polpastrelli.
Entriamo in ufficio e Giovanni mi introduce alle scapole degli astanti: il primo a voltarsi è Roberto, ricci e barba, “avrà più o meno la mia età”, mormoro silenziosamente tra me e me. Dal fondo, “postazione finestra” vista Pisani, quella riservata ai big, si palesa Lucio, non prima di essersi passato la mano destra sul quel baffone che aveva parcheggiato a mezzo viso: un gesto iconico, ricordo di averglielo visto fare moltissime volte negli anni trascorsi insieme, al lavoro. Uno di quei gesti ricorrenti, di commiato, la sera, insieme al pettinino d’ordinanza, prima di ripartire per casa. Lucio mi scruta dall’alto al basso, si rialliscia nuovamente il baffo, ed esclama: “Bene, bene… benvenuto. Ottimo perché qui ci sono un sacco di cose da fare!“. Ho la sensazione che nell’istante che passa tra la prima occhiata, la “baffata” ed il benvenuto, istante nel vero senso della parola, Lucio si è fatto già un’idea di quanto io ne capisca di computer ed affini.
Ed intanto, i miei polpastrelli raggiungono un livello di sudorazione prossimo a mille. Quando posso iniziare a smanettare?

Lucio, Marco, io e Roberto (non avete un po’ di nostalgia delle cravatte anni ’90?)

La visita guidata procede per il lungo e stretto corridoio: a destra i privé, gli uffici del personale informatico, a sinistra il datacenter, dove mi immagino nascosto dietro la porta blindata stia macinando bit su bit “il mostro“, il famigerato mainframe di cui in molti mi avevano parlato ma che in pochi erano riusciti ad aver mai visto dal vivo. Io compreso.

Prima tappa l’ufficio del capo, Giovanni, luogo che sarà teatro più avanti di epiche ed immemorabili, e pure divertenti, scenette dell’innovazione. Primordiale. Famosa quella delle prime interazioni vocali uomo-macchina, dove l’uomo ripeteva più volte cose che la macchina continuava a ripetere di non capire, con a seguire l’uomo che non capiva che la macchina non aveva capito, ripetendo nuovamente. Funny!
Tappa successiva nel privé di Enzo, lui davanti ai fosfori verdi del 5250, il terminale a caratteri che lo collega direttamente alle viscere del mostro. Enzo picchietta sulla tastiera più delicatamente rispetto ai colleghi. Da buon programmatore, più attento ad incolonnare quelle maledette righe di codice che sostengono le sorti dell’azienda e tutta la sua contabilità.
Più avanti il nido di Vittorio, uomo di reti e telecomunicazioni, “quello dei cavi” avrebbero detto una volta. L’ufficio più nebbioso di tutti, non per colpa della city meneghina questa volta, nebbia che si sarebbe dissolta dieci anni dopo grazie a Sirchia e alla sua legge.
Ultima tappa del tour la tana del mostro: dietro la porta blindata, nascosti dalla statua di transistor, nastri e dischi magnetici, Marco e Luigi. Intenti a sorvegliare l’AS400 e a gestire mezza foresta amazzonica che il mostro divora quotidianamente per ritornare ai contabili le certezze sull’andamento dell’azienda.

Più in là nel tempo mi presenteranno anche i colleghi Rinaldo e Carlo della sede remota. Remota vera, visto che è locata nella bassa bergamasca. Molto più remota, per noi allora, di quel che rappresenta un paesino sperduto della Nuova Zelanda oggi per le nuove generazioni.
Se a Milano si tengono in ordine i conti, a Bergamo si produce la concretezza per far sì che quei conti rimangano in ordine. I computer, sebbene agli esordi, la fanno da padrone su entrambe le sponde allargate dell’Adda.

Ed insieme ai computer, Lucio faceva la sua parte.

I colleghi se lo ricorderanno tutti ligio, sistematico e preciso nel predisporre i personal computer, ai tempi delle mattonelle da tre o quattro chili ciascuno, “macchine all’ultimo grido, potentissime” diceva lui. Se lo ricorderanno a volte anche un po’ rigido, fermo nell’esigere che al ricevimento del prezioso strumento i colleghi imparassero ad usarlo nel migliore dei modi, seguendo le sue istruzioni, oppure raccomandandosi di interpellarlo con urgenza e costanza per qualsiasi dubbio, domanda o preoccupazione.
Su quei macinini Lucio installava un Windows anteguerra e per farlo, a mo’ di disc jockey, inseriva ed estraeva, in sequenza, da una dei quelle buie fessure, una ventina di floppy disk. Ma anche l’antivirus, emulazioni di terminali vari e i magici marchingegni per connettersi alla rete aziendale. E poi cc:Mail, la posta elettronica, inizialmente solo interna, croce e delizia e distrazione, secondaria solo ai browser ed alla navigazione in rete che arrivarono un po’ più avanti.

Tutto vero. Ufficialmente.

Nel retrobottega, invece, si sperimentava.
C’era un po’ di gaming e Doom la faceva da padrone perché si giocava in rete: “Stanza uno a stanza quattro, ci ricevete?”
Lucio, invece, all’ennesima allisciata di baffo, richiamava noi giovincelli all’ordine: sperimentare sì, divertirsi pure, pensando però anche un po’ più in grande, pensando al futuro.
E allora via, a “navigare nell’internet” di allora: le BBS. Dieci, quindici interminabili fischi di modem, l’ultimo di avvenuta connessione era una goduria, e si entrava nel magico mondo della messaggistica e dello scambio file. Il nostro “spacciatore” di fiducia era un certo Counzy, numero del distretto di Monza per non esagerare con la bolletta telefonica, quella che veniva poi vomitata con sottolineatura d’ordinanza dal mostro che stava dall’altra parte del corridoio, dietro la blindata.
Gli occhi di Lucio brillavano. Non ricordo quanti anni avesse allora, io e Roberto poco più di venti, ma era più suo lo stupore nello scoprire quante informazioni si potessero trovare lì, su quello schermo a caratteri, lontani poco più di una telefonata quasi urbana. Stupore che Lucio rimarcava con quell’espressione -credo pavese- che spesso ripeteva, “Ciula-de-de“, a sottolineare quanto Counzy e i suoi file se la giocassero con quella Bonarda, quella buona, che conservava gelosamente nascosta in cantina. Quella Bonarda “che bevo solo io“, non “quell’altra che do ai miei amici quando mi vengono a trovare“, ripeteva ridacchiandosela fragorosamente.

Sì, perché io e Roberto quella cantina ce la siamo immaginata molte volte, forse anche sognata. Lì, oltre alla Bonarda da Oscar, immaginavamo che Lucio nascondesse anche quel “Salame di Varzi cucito a mano” che citava altrettanto spesso, rinvigorendo puntualmente le nostre ghiandole salivari. E con lui la moglie Carla, anche lei nel nostro immaginario a difesa del fortino nei momenti di assenza di Lucio, quelli spesi a Milano a lavorare.
Quella Milano che lui raccontava di aver abitato anni prima, quella che non era più quella di una volta. Quella Milano che era bella, sì, “ma io sono di origini padovane“. Quella Milano che era bella, sì, ancora, ma per arrivarci dal quasi-oltrepo pavese occorreva intraprendere un viaggio della speranza. Un po’ per colpa dei treni che, lo sappiamo, sono quel che sono. Un po’ per via degli agenti atmosferici che nel pavese… “voi di Milano, manco ve li potete immaginare“.

Ce lo ricordiamo, io e Roberto, arrivare la mattina pieno zeppo di storie su quel che era successo dalle sue parti il giorno prima. Della piena del Po, quel fiume che “ti accarezza e che allo stesso tempo ti bastona“; quel fiume che “mi sono alzato stanotte per andare a ricostruire gli argini a suon di sacchi di sabbia“. Quel fiume che d’estate, quando di acqua ce n’era poca, diventava la scenografia del miglior Mosé e le piaghe d’Egitto, con insetti, cavallette e zanzare. Soprattutto zanzare. Tante zanzare. Così tante che… “voi di Milano, manco ve le potete immaginare“.

A Pavia, anzi a “Pavlò” come diceva, tutto era più bello, più funzionale, più armonico. E per descriverlo come solo lui sapeva fare arrivava, puntuale come il Bressana Bottarone-Milano, la metafora “dell’oro e del placcato oro“. Provate ad indovinare voi, chi era il primo e chi il secondo!

Lavorare in una multinazionale voleva dire anche, di tanto in tanto, ospitare colleghi stranieri ma anche viaggiare. O meglio, ricavarsi il proprio spazio, costruire la propria visibilità all’interno dell’organizzazione. Con l’inglese ci si arrangiava, e dove non si arrivava, da buon italiani, ci si arrangiava comunque, sfoggiando fieri le proprie conoscenze, la capacità di tirar fuori le parole giuste, anche solo una parola, al momento giusto.

Me lo racconta sempre Roberto, io non c’ero, lui sì. Credo si trovassero in Francia, in un meeting con i colleghi informatici provenienti da tutta Europa. Tutti a dir la propria, una babilonia, il distorsore acceso sui più disparati accenti inglesi, tutti a lavorare sul proprio io non riuscendosi a mettere d’accordo su nulla. E Lucio che, ad un certo punto, forse stufo del cacofonico pollaio, si alza, si alliscia il baffo, quella volta forse in maniera un po’ più pronunciata rispetto al solito, a ricordare che quel gesto, nella cantina scrigno di casa, agevolava la degustazione dell’ultima goccia di quel famoso nettare divino, l’inarrivabile Bonarda. Serio, ritto, di fronte a sé i resti del muro di Berlino, le Alpi e i Pirenei schierati tutti insieme, pronuncia le magiche parole: “Token ring!“.

Silenzio in sala, Lucio ha detto la sua. Per l’ultima volta.
Risposa in pace, ciao Lucio.


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