La stazione sembra ancora quella di quando, quasi vent’anni fa, ci misi piede l’ultima volta. Uno sguardo ai binari, stanchi ma sempre loro, retti e paralleli. C’è il bar, lo stesso bar. La sala d’attesa mostra qualche mano di bianco in più; l’orologio segna l’ora esatta, così come probabilmente ha continuato a fare in quest’ultimi quattro lustri.
C’è un sottopasso, prima non c’era, ma ciononostante qualche avventore ancora sfida la sorte attraversando i binari in superficie. Il treno in arrivo s’annuncia fischiando, il fischio è moderno. Arriva un convoglio bi-piano, è nuovo, ma pare già vecchio; graffiti ed incuria lo mostrano più anziano delle carrozze di terza classe del tempo, quelle con accesso diretto al compartimento e sedili in legno, se ve le ricordate.
Il tabellone non segna più direzione Milano Porta Garibaldi: ora il passante si spinge ad est, fino a Treviglio.
Salgo in carrozza, il mondo è più piccolo, i compagni di viaggio più variegati di allora. Il paesaggio non è cambiato un granché. Riflesso incondizionato, prima fermata -siamo a Vanzago- guardo fuori dal finestrino per cercare Roberto che, giornale sottobraccio, trafelato, corre per non perdere il treno. Non c’è. “Eh già, non siamo più nel 1993!“, mormoro tra me e me.
Oggi ho preso il treno. Oggi ho preso il treno dalla ‘mia’ Parabiago.
E la stazione se ne è accorta, tanto che ha voluto salutare il mio ritorno in modo imponente, ufficiale, dall’altoparlante, accogliendomi oggi come faceva spesso allora: “Attenzione, attenzione… annuncio ritardo!“.
Il mondo è più piccolo, il mondo non è cambiato.
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