Vi ripropongo questo post dell’ottobre 2016, ispirato alla conferenza del prof. Galimberti che trovate più sotto, in tema lavoro, uomo, performance e dignità. Vi invito a rileggerlo e trarne nuove conclusioni, soprattutto alla luce della comparsa dell’intelligenza artificiale, così come l’abbiamo conosciuta e ci ha, forse non ancora del tutto, travolti dal lancio pubblico di ChatGPT del 2022.
Quando il lavoro diventa disumano
“Tu il lunedì devi essere lì, giusto, in quella casella giusta, devi essere produttivo. Tu devi essere lì…
Nel mondo del lavoro contemporaneo ci troviamo di fronte a una trasformazione silenziosa ma radicale. Come ci ricorda il filosofo Umberto Galimberti in questa conferenza mai invecchiata del 2016, viviamo nell’era della ragione strumentale, dove l’unico metro di giudizio è diventato il “massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi“. Efficienza e produttività sono i nuovi idoli davanti ai quali ogni altra considerazione umana deve inchinarsi.
La macchina che sostituisce l’uomo
Guardiamo la realtà che ci circonda: il computer non si ammala, dice il professore (con lei, l’intelligenza artificiale, aggiungo io); non si annoia, ha una memoria superiore alla nostra, non resta mai incinta, non va in ferie, non litiga con il partner. E noi, operatori umani, dobbiamo diventare il più possibile vicini a quel modello. Dobbiamo trasformarci gradualmente in funzionari di un apparato tecnico che non conosce pietà né compassione.
Questo processo ha conseguenze devastanti sulla nostra identità. Se una volta eravamo riconosciuti per quello che eravamo come persone, ora la nostra identità dipende esclusivamente dal riconoscimento che ci dà l’apparato di appartenenza. Saliamo in carriera? La nostra identità viene riconosciuta. Non raggiungiamo gli obiettivi? Viene disinvestita ai nostri stessi occhi.
Dalla collaborazione alla competizione feroce
Una delle trasformazioni più dolorose riguarda i rapporti tra colleghi. Una volta si lavorava insieme, si era compagni di lavoro nel senso più pieno del termine. Oggi invece siamo tutti competitori, perché se il collega accanto a me è più bravo, più efficiente, più performante, lui manterrà il suo posto mentre io rischio il licenziamento.
È guerra, anche a distanza di un metro. Abbiamo perso l’amicizia, abbiamo perso la solidarietà, perché la logica della tecnica ci impone questa mentalità competitiva. Il risultato è un ambiente di lavoro dove regna la diffidenza e dove ogni gesto di aiuto verso un collega può essere interpretato come un segno di debolezza.
Il crollo dell’etica: tutto è permesso purché funzioni
In questo scenario, la morale tradizionale è diventata irrilevante. Non perché siamo diventati intrinsecamente cattivi, ma perché è arrivata un’istanza più forte della morale: la tecnica. La morale, se vieni scoperto a trasgredire, ti perdona. La tecnica no: se non sei efficiente e produttivo, ti licenzia.
Non conta più se sei una brava persona, se hai valori solidi, se tratti bene i colleghi. L’unica domanda che conta è: “Raggiungi gli obiettivi?” Tutto il resto è considerato irrilevante, un lusso che non possiamo permetterci in un mondo che corre sempre più veloce.
La nuova depressione: dal senso di colpa al senso di inadeguatezza
Questo cambiamento ha generato una forma di depressione completamente nuova e ancora poco compresa. Se un tempo la depressione si organizzava intorno ai sensi di colpa legati al passato, oggi si struttura sul senso di inadeguatezza rispetto al futuro.
Il gioco non è più tra “permesso” e “proibito”, ma tra “ce la faccio” e “non ce la faccio”. E siccome ogni anno l’asticella degli obiettivi si alza un po’, la tensione diventa costante. Non c’è più orario di lavoro: si lavora a casa, si pensa al lavoro nel weekend, si è sempre connessi, sempre sotto pressione.
Verso un lavoro più umano: strategie concrete
Ma non tutto è perduto. Esistono vie d’uscita da questo meccanismo disumanizzante, e paradossalmente portano anche a risultati migliori dal punto di vista economico.
Per chi “guida”, classe dirigente:
Valorizza la persona oltre la performance. Riconosci che dietro ogni numero c’è un essere umano con i suoi talenti, le sue fragilità, la sua storia. Un dipendente che si sente visto e apprezzato come persona darà il meglio di sé.
Promuovi la collaborazione invece della competizione interna. Crea team dove il successo individuale dipende dal successo collettivo. Incentiva la condivisione delle competenze e l’aiuto reciproco.
Stabilisci obiettivi realistici e sostenibili. La crescita continua è un mito pericoloso. Meglio obiettivi raggiungibili che mantengano alta la motivazione piuttosto che traguardi impossibili che generano solo stress.
Investi nella formazione umana, non solo tecnica. Dedica tempo e risorse allo sviluppo delle competenze relazionali, dell’intelligenza emotiva, della capacità di gestire i conflitti.
Per chi (davvero) “guida”, i lavoratori:
Ricorda la tua dignità oltre il ruolo. Non sei solo un funzionario, sei una persona con una storia, dei valori, delle relazioni che vanno oltre l’ufficio.
Coltiva relazioni autentiche con i colleghi. Resisti alla logica della competizione sfrenata. Un ambiente collaborativo ti proteggerà meglio di qualsiasi strategia individuale.
Mantieni confini sani tra lavoro e vita privata. Essere sempre disponibili non ti rende indispensabile, ti rende schiavo.
Cerca significato in quello che fai. Anche il lavoro più tecnico ha un impatto su persone reali. Ricordati perché quello che fai ha valore.
La strada verso il cambiamento
Il paradosso di questo sistema è che, alla lunga, si dimostra inefficiente anche dal punto di vista economico. Dipendenti stressati, demotivati, in competizione tra loro, producono meno e peggio di team coesi e sereni. Le aziende più innovative lo stanno capendo e stanno sperimentando modelli organizzativi più umani.
Non si tratta di buonismo, ma di realismo: l’uomo ha bisogno di senso, di relazioni, di riconoscimento per dare il meglio di sé. Un ambiente di lavoro che tenga conto di questi bisogni non solo sarà più vivibile, ma anche più produttivo.
La sfida è culturale prima che organizzativa: dobbiamo riscoprire che l’efficienza fine a se stessa non è un valore, ma uno strumento. Il valore vero è la dignità umana, la possibilità per ogni persona di esprimere i propri talenti in un contesto che la rispetti e la valorizzi.
Solo così il lavoro potrà tornare a essere quello che dovrebbe sempre essere: un’occasione di crescita personale e di contributo al bene comune, non una corsa forsennata verso obiettivi sempre più irraggiungibili che ci trasformano in funzionari di una macchina che non conosce pietà.
Scopri di più da Luca Bonesini
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