Succede più spesso di quanto pensiate: qualcuno lascia l’azienda, a volte con il sorriso, a volte con la scatola di cartone piena di effetti personali e un’espressione perplessa. Pochi minuti dopo, su Slack o in mailing list interne, arriva l’inevitabile messaggio d’addio: lungo, sofferto, magari con una citazione di Steve Jobs o Mandela (dipende dalla gravità dell’uscita).
E giù con i salamelecchi.
“Ci mancherai!”
“È stato fantastico lavorare con te!”
“Grazie, grazie, grazie!”
“Ti auguro il meglio per il futuro!”
Ora, fermi tutti. Ma davvero?
Nella maggior parte dei casi -diciamolo senza ipocrisia- sono frasi di circostanza, copiate da qualche messaggio letto mille volte, magari scritte di fretta, o peggio ancora partorite da un generatore automatico di empatia chiamato ChatGPT (ehm…). Insomma: parole vuote, un po’ come quelle dei necrologi, ma con più emoji.
Il punto è: perché aspettare che uno se ne vada per dire quanto fosse bravo, simpatico, stimato, fondamentale per il team?
Non sarebbe più onesto, umano, e forse anche utile, dire le cose mentre si è ancora colleghi? Un cenno di approvazione dopo una presentazione ben riuscita. Un “Bel lavoro!” detto mentre si prende il caffè. Una mail di due righe, ma scritta col cuore, non con l’autocompletamento.
Piccoli segnali, sinceri, distribuiti nel tempo. Un po’ come l’acqua alle piante: meglio poca e costante, che secchiata finale quando ormai è appassita.
Così, giusto per non finire in mezzo alla folla di paese che, riunita attorno al necrologio ancora fresco di colla, con voce rotta ricorda “quanto era buono” il caro estinto.
Scopri di più da Luca Bonesini
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